di Massimo Rovati, giornalista

 

Ghiaccio, sangue, bellezza e miseria. Sono i cardini intorno ai quali si regge e si dipana la nuova opera di Camillo Bignotti, un romanzo che se, da una parte, si inserisce nel solco tracciato dal libro d’esordio (L’eroico romanzo di Bedero Valcuvia, Macchione 2016), dall’altra riesce ad andare oltre sul piano della padronanza dei mezzi narrativi.

 

Romanzo storico, come il precedente, dove il corposo lavoro di ricerca e documentazione dell’autore si “vede” ad ogni pagina, ad ogni riga di descrizioni sempre precise e quasi figurative, dove i personaggi sono come minimo verosimili (quando non veri, reali, esistiti e come tali usciti dal suddetto magnus opus di consultazione di archivi), dove i luoghi sono concreti, vissuti, si mostrano al lettore uscendo dalla carta e creando una sorta di controcampo visivo durante la lettura.

 

Ma dove il precedente sembrava fermarsi alla fotografia fedele e minuziosa di una realtà, analizzata con una padronanza  assoluta e con tratti vivi e mai didascalici, qui lo sguardo dell’autore va oltre, abbracciando altri dove (gli scenari della Grande guerra, le Dolomiti bellunesi, le trincee e le figure stilizzate ma vive dei generali Cadorna e Diaz) e soprattutto salendo di livello, con un’analisi che si spinge a trattare parallelamente temi “alti” come l’arte e la fede, la condizione dell’uomo e il suo destino. 

 

Le descrizioni degli affreschi e degli elementi architettonici della chiesetta di Campobella, tratteggiate con la consueta maestria (ingegneristica) da Bignotti, trasmettono al lettore tutto l’entusiasmo dell’autore nei confronti del bello, un bello che sa essere trascendente e raffigurazione di un divino che permea i personaggi principali. Ed è curioso come questo “salto in avanti” si realizzi con un romanzo di sole 140 pagine, un’opera agile e di lettura rapida ma non certo facile. Agile anche grazie a una scelta stilistica di disomogeneità voluta, con la storia che salta di paragrafo in paragrafo da un anno all’altro, da un secolo all’altro, da un mese al precedente, tenendo desta l’attenzione del lettore e creando alla fine un corpus unico che copre il periodo tra la fine del diciassettesimo secolo e la fine della Prima guerra mondiale (1918). Un romanzo dove i dialoghi sono ridotti all’osso, dove i personaggi appaiono a loro volta come parti di un maestoso paesaggio (Valganna, Valcuvia e non solo) di cui sono elementi vivi, pensanti e recitanti ma mai estranei. Un romanzo dove troviamo la miseria della popolazione contadina dei secoli scorsi ma anche la sua aspirazione alla conoscenza e il suo amore per la contemplazione delle meraviglie, siano esse create dall’uomo o naturali. Un romanzo dove l’uomo – nei personaggi di Pietro e Giovanni Antonio – conosce anche l’amore nelle sue forme diverse, sia quello fisico e passionale sia quello puramente spirituale.

 

Un romanzo, infine, dove la padronanza del mezzo espressivo-linguistico, senza scadere nel tecnicismo fine a se stesso, si fa notare dall’inizio al bellissimo, sognante epilogo.

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